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In questi giorni, o
sarebbe meglio dire in questi ultimi anni, l'Italia televisiva e dedita alle
cosiddette "cronache rosa" è monopolizzata prepotentemente da un
personaggio, il "Principe" Emanuele Filiberto di Savoia.
Quest'ultimo, non c'è dubbio, si presta benissimo al
meccanismo televisivo, pur rasentando spesso i confini del ridicolo e della
spregiudicatezza. Memorabili resteranno le sue partecipazioni alla
trasmissione, poi vinta, di gare di ballo o, come in questi giorni, la
seguitissima presenza al Festival della canzone italiana.
Inutile dire che in questo contesto di TV spazzatura non è
importante saper ballare o cantare per partecipare a gare di questo tipo; se
in più a farlo è un "Principe", erede dell'unica famiglia reale italiana che
il nostro paese (unito) abbia mai avuto, le probabilità di vittoria
aumentano vertiginosamente.
Eppure c'è un piccolo aspetto, forse superfluo, che in
pochi hanno evidenziato, ma che merita, a mio avviso, di essere ribadito,
soprattutto in un clima in cui si assiste drammaticamente inermi alla
degenerazione del nostro Stato, della nostra politica, delle nostre
istituzioni, offese da personaggi senza morale, corrotti, ignoranti e in
alcuni casi diretti rappresentanti del potere mafioso.
Ciò a cui mi riferisco è la totale non validità dei titoli
nobiliari in uno stato repubblicano come il nostro, cosa sancita
solennemente dalla Costituzione, che recita (nella sua XIV Disposizione
Transitoria e Finale):
I titoli nobiliari non sono riconosciuti.
I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre
1922 valgono come parte del nome.
L'Ordine mauriziano è conservato come ente ospedaliero
e funziona nei modi stabiliti dalla legge.
La legge regola la soppressione della Consulta
araldica.
Insomma, dal 1 Gennaio 1948, data di entrata in vigore
della nostra Costituzione, chiunque si faccia chiamare o si presenti
apertamente e ufficialmente come "Principe", "Sua Altezza", "Marchese" o
altro ancora lo fa assumendosene in pieno la responsabilità, che è quella di
contraddire la volontà dei padri fondatori della Repubblica Italiana.
Detto ciò, quindi, non sarebbe meglio che ciascuno si
presentasse per quello che è e non per qualcosa che non ha più alcun diritto
legale? Se non fosse utile, è ovvio, tutti lo farebbero, ma come detto
prima, ancor oggi, presentandosi come "nobile" si riesce, nella maggior
parte dei casi, a godere di privilegi e favori che non dovrebbero essere
consentiti.
Nel caso specifico, Emenuele Filiberto, lo fa,
probabilmente, non tanto per rispetto di una sua tradizione familiare ma,
evidentemente, per recitare un ruolo da protagonista, buffo e impacciato ma
pur sempre protagonista, che sembrerebbe di non meritare.
Se però proviamo, per un attimo, ad astrarre il nostro
discorso dalle precedenti considerazioni "normative" e fare un piccolo tuffo
nella storia, assecondando quindi l'ostentazione nobiliare, non si capisce
come mai tutto ciò non venga percepito come un clamoroso boomerang.
Soprattutto per come i suoi antenati, Re d'Italia, hanno trattato il nostro
paese ed in particolare il meridione.
Senza citare i numerosi traguardi raggiunti, prima
dell'avvento dei Savoia, dal Regno delle 2 Sicilie guidato dai Borbone,
sconfitti soltanto con l'appoggio determinante di potenze quali Francia e
Inghilterra, basta citare pochi punti per concludere che l'unità d'Italia,
indispensabile bene storico per il nostro paese, fu realizzata nel peggiore
dei modi possibili.
Il nuovo potere sabaudo, dal 1860 in poi, si preoccupò
infatti di reprimere i dissidenti meridionali, praticando spesso politiche
di rappresaglia sulle popolazioni civili e imponendo un servizio militare
obbligatorio di cinque anni, senza paga, a tutti i giovani maschi, cosa che
invalidò la già povera agricoltura di sussistenza. Le rovine della guerra e
del saccheggio spinsero gran parte della popolazione rurale alla lotta
armata e, la resistenza di irregolari meridionali, nata come naturale
reazione all'invasione e come risposta all'incapacità delle armate
borboniche, ricevette presto rinforzi massicci da chiunque patisse la fame,
rendendo così strutturale il fenomeno del brigantaggio (antesignano delle
organizzazioni mafiose).
Sul piano economico, dai piemontesi, le cui finanze
statali erano state messe a durissima prova dalla politica espansionistica e
unificatrice, furono chiuse antiche cave d'argento per favorire gli
alleati francesi e in parte dismesse le ricche fabbriche
manifatturiere meridionali a favore di quelle del lombardo-veneto. Furono
inoltre chiusi i bacini navali (tra cui quello glorioso di
Castellammare di Stabia) in cui si fabbricavano prestigiosi battelli, in
evidente competizione con quelli liguri. Non si dette seguito alla
costruzione delle ferrovie che avevano brillantemente iniziato i Borboni
(impoverendo di colpo l'importanza di stabilimenti come quello di Pietrarsa,
a Napoli); fu reintrodotta la tassa sul macinato, cioè sul pane, che era
l'elemento essenziale per la sopravvivenza dei poveri. Il colpo finale fu
poi l'incameramento delle casse del Banco delle Due Sicilie,
stimate in ben 443 milioni di "Lire-oro" e corrispondenti ad oltre il 60%
del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme, da parte di quelle
esauste del Piemonte, indebolite drammaticamente dalla guerra di
unificazione. La moneta del Regno di Sardegna, infatti, disponeva di
pochissime riserve auree, ampliate massicciamente con l'annessione forzosa
di quelle meridionali in modo da ricostituire una massa di oro necessaria al
nascente Regno d'Italia per emettere nuovamente moneta...
Insomma, rileggendo in modo critico la storia, si conclude
che forse l'attuale stato di povertà del mezzogiorno d'Italia divenne un
fenomeno ancor più tragico a seguito della politica "unificatrice" dei
Savoia, incapaci di creare un autentico e atteso Stato Nazionale con
condizioni di pari dignità socio-economica dei suoi sudditi. Il loro
obiettivo fu diverso e assomigliò molto a quello di un grande Piemonte...
Verrebbe da chiedersi, dunque, a valle di queste
riflessioni, se davvero la storia, come disse qualcuno, non si ripeta sempre
2 volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa.
Tra un balletto e una strofa di una canzone che recita
"Italia amore mio" il Principe ci suggerisce che sia proprio vero.
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