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<< Se solo avessi
un po' più di tempo farei... >>
Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase e
quante volte, con un leggero senso di frustrazione, l'abbiamo pronunciata
anche noi.
Il problema del rapporto tra tempo dedicato al lavoro e
tempo dedicato alla vita privata è sempre stato, storicamente, al centro
delle trasformazioni sociali e delle correnti di pensiero; ciò non soltanto
per le ovvie implicazioni nella vita di una persona e nel complesso della
collettività, ma anche perché, a ben guardare, esso si intreccia
pesantemente con l'idea che ciascuno di noi ha del "progresso".
E' utile, a tal riguardo, un brevissimo cenno storico per
inquadrare meglio la questione.
All'inizio del ‘900, l'orario di lavoro passò dalle 10-12
ore quotidiane alle 8 ore per un totale di 48 settimanali; si lavorava cioè
6 giorni su 7 con un solo giorno di riposo settimanale.
Per la prima volta, nel 1920, vennero istituiti, mediante
accordo sindacale, 6 giorni di "ferie" retribuiti all'anno, concetto fino ad
allora assente (la regola era quella del guadagno a fronte di lavoro e
quindi nessuna retribuzione nei giorni di assenza).
Tra gli anni '30 e gli anni '60 vi fu un ulteriore
progressiva riduzione dell'orario settimanale, passato dalle 48 ore
settimanali alle 44-46, a seconda delle categorie. Parallelamente crebbero
in quegli anni, assieme ad altre forme di diritto dei lavoratori, il numero
di giorni di ferie retribuiti, passati dai 6-8 annuali ai 12-15.
Bisogna attendere però soltanto gli anni '70 per giungere
al modello che oggi conosciamo: 40 ore settimanali (ovvero 2 giorni di
riposo settimanale) e 25-30 giorni di ferie annuali retribuite.
E' interessante notare, tra l'altro, che queste riduzioni
progressive del secolo scorso avvennero, con vicende altalenanti talora di
segno opposto e, in ogni caso, grazie a dure lotte della classe lavoratrice,
sempre a parità di salario.
Perché è importante osservare questa tendenza?
A mio parere per 2 motivi fondamentali: da un lato per
immaginare il futuro, magari non prossimo, ma di certo inevitabile e
dall'altro, come detto prima, delineare meglio l'idea, spesso incompleta nei
ragionamenti di alcuni, di "progresso umano".
Come si vede, ciclicamente, nel secolo scorso, ad
intervalli di circa 20-30 anni furono varate, a seguito di sempre più forti
rivendicazioni sindacali, ripetute riduzioni del 5-10 % dell'orario di
lavoro settimanale (a parità di salario) e un parallelo aumento delle
giornate di riposo o di ferie annue.
E' legittimo dunque attendersi, a breve, una nuova
rivoluzione su questo fronte?
La ragione e il buon senso direbbero di si, ma è qui che,
secondo me, qualcosa si è "interrotto".
Questo qualcosa, non definibile in modo semplice, ha molto
a che vedere con l'idea di progresso attualmente in voga nella nostra
cultura, troppo influenzata da teorie economiche iper-liberiste e
freddamente monetariste. Non solo, infatti, l'idea stessa di ulteriore
riduzione dell'orario di lavoro viene respinta aprioristicamente come
relitto "comunista" e pericoloso "virus" anti-economico (basti pensare alla
povera sorte del primo governo Prodi, pronto a presentare, pur in modo
travagliato, una legge sulle 35 ore settimanali a parità di salario), ma, se
si osserva con attenzione il modello vincente proposto nei dibattiti, questo
è quasi sempre identificabile in quello del lavoratore instancabile, pronto
a sacrificare se stesso, i propri affetti e i propri interessi privati a
favore della causa lavorativa.
Troppo spesso si assiste a pubbliche lodi di coloro che
impegnano totalmente le proprie giornate dedicandosi, quasi esclusivamente,
al lavoro, magari andando, in molti casi, ben al di là delle 8 ore
quotidiane, con ricorso ormai abituale a quelle "straordinarie".
La cultura dominante è questa e chiunque provi a metterla
anche leggermente in discussione viene osservato come un alieno o peggio
ancora come un potenziale "disturbatore".
Eppure un'idea corretta e sana di progresso imporrebbe non
soltanto, come accade già, la convinzione che lo sviluppo umano richiede un
maggior numero di beni da progettare-costruire-smaltire (il che ovviamente
comporta un maggior carico di lavoro) ma anche che questo "aumento di
lavoro" debba essere distribuito su un maggior numero di persone, lasciano a
ciascuno maggior tempo libero, utile a perseguire e concretizzare i propri
interessi e i propri hobby.
A ben guardare, infatti, questo comporterebbe 2 vantaggi
inequivocabili: da un lato, probabilmente (anche se su questo gli economisti
sono divisi), una riduzione della disoccupazione, giunta a livelli
intollerabili e alla quale assistiamo inermi e disinteressati, e,
dall'altro, una ripresa di interi settori economici perennemente in crisi.
Spesso, infatti, si parla di "industria del tempo libero", riferendosi a
quei settori quali ad esempio editoria, cinematografia, beni culturali,
turismo, sport che soffrono non tanto di una carenza di domanda bensì di una
difficoltà di quest'ultima a diventare "reale".
Ci si stupisce, ad esempio, che un italiano legga meno di
10 libri all'anno, non pratichi regolarmente uno sport, non visiti mai o
quasi mai musei, non vada a teatro e così via; tuttavia troppo poco ci si
interroga sul fatto che quello stesso italiano, lavorando in media 8 ore al
giorno, alle quali vanno sommate 1-2 ore di spostamento per recarsi sul
posto di lavoro e un'altra dedita alla pausa pranzo, manca da casa propria
sostanzialmente dalle 10 alle 11 ore quotidiane. Lasciando le altre al sonno
e ai normali servizi utili a mandare avanti una casa (come la spesa, per
citare un esempio banale) cosa resta dunque?
Forse soltanto una cosa... il tempo sufficiente a
sussurrare una frase, con voce flebile e un leggero senso di frustrazione:
<< Se solo avessi un po' più di tempo farei... >>
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